In un momento in cui il dibattito sulla violenza di genere e il patriarcato è più acceso che mai, il Gruppo donne SILP CGIL lancia la campagna “Facciamo Rumore”, un appello per scuotere attraverso i social le coscienze, combattere gli stereotipi e promuovere azioni concrete contro la violenza sulle donne.

Michela Pascali, segretaria nazionale SILP CGIL, denuncia un problema culturale radicato e replica alle recenti dichiarazioni del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, secondo cui il patriarcato sarebbe “un fenomeno giuridico finito” e l’incremento della violenza sessuale sarebbe da collegarsi all’immigrazione illegale.

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Qual è il significato della campagna Facciamo Rumore e a chi vuole arrivare?
Il messaggio si rivolge innanzitutto alle donne che indossano una divisa, ma anche alla società nel suo insieme. Le donne in polizia affrontano una duplice sfida: la loro professionalità viene spesso messa in discussione o valutata attraverso la lente del genere. Con questa campagna vogliamo affermare chiaramente che il genere non deve condizionare la competenza. L’obiettivo è costruire consapevolezza, sia all’interno della nostra comunità sia verso l’esterno, per ribadire con forza che esistiamo, siamo presenti e che il nostro lavoro è fondamentale. Inoltre, vogliamo affrontare il tema della sessualizzazione implicita che, in molti casi, subiamo anche all’interno della Polizia di Stato.

In che modo si manifesta questa sessualizzazione?
Un esempio simbolico è l’uso della gonna come parte della divisa. Non ha alcuna utilità, né pratica né rappresentativa, ma sembra progettata solo per evidenziare il corpo femminile. È un simbolo che richiama una cultura che sessualizza le donne anche in contesti professionali. Non si tratta di una questione estetica, ma di un elemento che perpetua stereotipi e consolida una visione patriarcale ancora presente in molti ambiti della società. La gonna trasmette un messaggio implicito: "Non sei libera, sei confinata in un ruolo".


Avete scelto l’immagine di Ahou Daryaei, la giovane iraniana recentemente arrestata per essersi spogliata davanti a un campus universitario a Teheran, come simbolo della campagna. Perché?
Abbiamo voluto che la nostra battaglia parlasse di libertà universale, usando la sua immagine priva di riferimenti religiosi. Il messaggio è chiaro: il diritto delle donne di essere se stesse, libere da stereotipi e imposizioni, è un tema che attraversa culture e religioni. La violenza di genere e il patriarcato sono problemi trasversali, e la lotta contro di essi deve esserlo altrettanto.

Ieri, durante la presentazione della Fondazione dedicata a Giulia Cecchettin, il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha affermato che “il patriarcato, come fenomeno giuridico, è finito” e che combatterlo è ideologia. Che ne pensa?
Questa affermazione è l’ennesimo tentativo di negare una realtà evidente. È un modo per assolversi, per evitare di affrontare un problema ancora profondamente radicato. È una narrazione tipica di chi vuole distorcere i fatti per rafforzare uno status quo. La psicologa sociale Chiara Volpato parla di "patriarcato buonista", un atteggiamento in cui gli uomini si presentano come galanti e benevoli, ma perpetuano una cultura patriarcale mascherata da buone intenzioni. Valditara mi sembra rispecchiarlo.

Un esempio di paternalismo istituzionale?
Esattamente. Pensare che le donne abbiano bisogno di essere protette dagli uomini è una forma di paternalismo che limita la loro autonomia. Le donne sanno difendersi, ma hanno bisogno di spazi sicuri, politiche del lavoro adeguate e pari opportunità. È su questi fronti che dobbiamo lavorare. Con la nostra campagna chiediamo interventi concreti: stop ai tagli sulla sicurezza, maggiore supervisione e tutela per chi si occupa di contrastare la violenza, e protocolli di prevenzione che coinvolgano ogni ambito della vita quotidiana.

Valditara ha anche detto che l’incremento della violenza sessuale sarebbe legato a “forme di marginalità e devianza derivanti dall’immigrazione illegale”. Come commenta?
Questa è una lettura miope e strumentale. La realtà che noi forze di polizia viviamo quotidianamente racconta altro: la violenza colpisce fasce sempre più giovani, si manifesta in contesti familiari e si concretizza in episodi come gli stupri di gruppo. È il risultato di una carenza educativa che coinvolge uomini e donne del domani. Noi forze di polizia cerchiamo di fare prevenzione nelle scuole, ma abbiamo bisogno di essere sostenuti maggiormente. Quanto all’immigrazione, la violenza è un fenomeno trasversale, che coinvolge tutte le classi sociali e le etnie. I dati parlano chiaro: la maggior parte delle violenze avviene in ambito domestico e coinvolge famiglie italiane, non fosse altro perché sono più numerose. La violenza non ha colore né religione, è un problema culturale diffuso a cui vogliamo dire basta, adesso.

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