Risparmi e operatività:le forze dell'ordine nell'ottica di una vera “prossimità” per il cittadino.



Uno dei primi aspetti che viene tirato in ballo nel nostro Paese quando si parla di operatività delle forze dell'ordine risulta essere quello della distribuzione sul territorio delle forze di polizia spesso includendo, tra esse, corpi che nulla hanno a che vedere con la sicurezza pubblica e l'attività di prevenzione e repressione dei reati.
In merito non esiste, purtroppo, un progetto organico, (r)esistono, loro malgrado, solo logiche che poco o nulla hanno a che fare con la sicurezza intesa come tutela dei cittadini e del territorio.
Non è chiaro quali siano le risorse sul territorio e non si ha una progettualità sui tempi di intervento né a livello di metropoli né a livello di uffici distaccati nei più lontani luoghi del Paese.
A proposito di tempi per l’intervento l’Unione Europea prevede che a partire dal 2015 le auto siano predisposte con il sistema “eCall” ovvero con a bordo un congegno che faccia partire la richiesta di soccorso qualora avvenga un grave incidente. Si stima che questo accorgimento porterà a un considerevole risparmio sui tempi di intervento che naturalmente si traduce in un più ampio margine per la salvaguardia delle persone coinvolte.
La rilevanza degli incidenti stradali sulla comunità è essenziale, ma non è da meno la richiesta di sicurezza dei cittadini, pur considerando le notevoli diversità societarie nei Paesi aderenti all'Unione. Le diversità che tuttora persistono (per citarne solo alcune quali la divisione del controllo del territorio in zone di competenza tra Polizia e Carabinieri a giorni alterni, la non omogeneità nell’approccio con le richieste di intervento, i tempi eccezionalmente lunghi per gli interventi soprattutto nelle zone più decentrate) suggeriscono di accelerare qualsiasi processo di unificazione, coordinamento o semplificazione.
In tal senso, il “numero unico europeo”, immaginato come il catalizzatore del cambiamento, capace di sopperire alla carenza troppo frequente di coordinamento sul territorio abituando alla collaborazione, modificando assetti troppo statici, promuovendo una sinergia divenuta indifferibile per la perdurante grave carenza di personale, mezzi e risorse pare non aver sortito le iniziali ambizioni che si prefiggeva.
Da un altro punto di vista si rileva come la fiducia nelle forze dell’ordine da parte dei cittadini sia costantemente in declino, anche se generosi sondaggi attribuiscono grande credibilità ai tutori della legge. Tra le ragioni che più qualificano questa tendenza vi è la consapevolezza dell’inutilità della denuncia, maturata sia sulla base dell’esperienza dell’applicazione della giustizia in Italia che sugli scarsi risultati delle attività svolte dopo i reati. La percezione dell’azione dei giudici si risolve in un sentimento di disaffezione soprattutto considerando che i micro reati (la cd. criminalità “predatoria” e cioè quei reati che colpendo direttamente i cittadini destano in essi il maggior allarme sociale) risultano i meno sanzionati in termini statistici e che gli autori di tali reati difficilmente trascorrono periodi medio – lunghi in carcere.



Da qui (e non solo da qui) l’ampio diffondersi della cosiddetta “sicurezza percepita” come situazione di ampio disagio (alcuni Autori parlano di paradosso della sicurezza) che in Italia assume connotazioni ovviamente profondamente diverse da zona a zona in base a molteplici variabili ma che pare estendersi e crescere d’intensità pur in presenza di una costante diminuzione di alcune tipologie di reato.
Aumenta la platea di coloro che “non hanno fiducia” nel prossimo come nelle istituzioni per cui cresce anche un atteggiamento di isolamento che comunque nuoce al buon andamento della società.
Queste brevi considerazioni ci portano a mettere in evidenza alcune delle priorità che il settore sicurezza reclama in modo globale, essendo parte integrante delle problematiche anche il complesso derivante dalla sintesi del sapere professionale, del grado di coinvolgimento nonché della disponibilità di risorse. In buona sostanza non appare ipotizzabile affrontare qualsiasi tematica sulla sicurezza senza tener presente la componente umana degli appartenenti alle forze dell’ordine. Similmente (e questo appare come un serio pericolo) si può sovraccaricare di valenza la parte corporativa perdendo di vista la complessità del quadro generale.
Se possiamo trarre dalla storia recente della sicurezza in Italia un elemento qualificante esso risiede nella progressiva acquisizione della coscienza che non esistono più (per fortuna) i mondi contrapposti cui ci aveva abituato il ventesimo secolo fin quasi ai suoi ultimi anni.
La sicurezza non è più quel problema che si affronta / combatte / risolve in via esclusiva con i “poliziotti” e i “carabinieri”. E’ ovvio che sono ancora loro a combattere in prima fila ma con la certezza che molte delle situazioni in cui si imbattono non sono casi regolamentati dal codice penale o dalle norme (numerose) di pubblica sicurezza.
Sfratti, minori, fenomeni migratori, degrado, maltrattamenti: solo per citare alcuni esempi hanno sfaccettature inerenti l’attività di polizia ma necessitano di interventi corali da parte di vari attori sociali per essere affrontati. Eppure in queste ed altre attività le forze dell’ordine sono impegnate con la frustrante sensazione - consapevolezza di poter fare assai poco se non talvolta nulla rispetto al cuore del problema trattato di volta in volta.
Il tentativo di portare le forze di polizia “vicino” alla gente (slogan di gran moda, ma viene da chiedersi se questa vicinanza non dovrebbe essere insita nella natura dell’istituzione preposta alla sicurezza di qualsiasi consesso societario) ha trovato nei primi anni 2000 un interesse organizzativo con la creazione dei poliziotti e carabinieri “di quartiere”. Era abbastanza frequente in quell’epoca l’esposizione della teoria in base alla quale non si doveva vedere passare un operatore di polizia seduto su un auto (teoria peraltro già sviluppata in Germania circa venticinque anni prima). Il poliziotto - carabiniere ri-trovava così la sua dimensione nel contesto socio urbano camminando, osservando, dialogando, prendendo in carico le problematiche prospettate e curando la successiva informazione al cittadino su come si era sviluppata l’azione, in un ambito denominato “polizia di prossimità”.



Se consideriamo le modalità con le quali la Francia ha affrontato (e tuttora affronta) la stessa questione notiamo come il dibattito e le scelte politiche siano state assai più cogenti rispetto alle strutture organizzate preesistenti.
In primo luogo la Francia ha individuato questo modo di attuare la sicurezza come una vera e propria “rivoluzione culturale”. Nell’ampio dibattito sviluppatosi nella società si è consolidata l’idea che le istituzioni fossero chiamate a mettere in pratica le linee indicate a livello di politica della sicurezza. In quest’ottica si è esaminata la presenza delle varie forze sul territorio armonizzandola e razionalizzandola rispetto agli obiettivi prefissati in modo congiunto. Perché proprio la condivisione dell’analisi e delle strategie costituisce uno dei punti di forza dell’approccio francese alla “polizia di prossimità”.



In pratica la polizia di prossimità in Francia si fonda su tre elementi:
Un approccio globale verso l’ordine pubblico che si estrinseca in tre aspetti e cioè la prevenzione, la dissuasione e la repressione ;
La capacità di percepire le aspettative dei cittadini in tema di sicurezza ;
Un sistema di cooperazione tra lo Stato e le comunità territoriali e le associazioni che permette di attuare la maggior mobilitazione sulle questioni concernenti la sicurezza.

Questo sistema evidenzia caratteristiche di grande interesse per l’elevato grado di coinvolgimento dell’intero assetto societario. Anche gli Stati Uniti (con le dovute cautele nel raffronto per le profonde differenze tra i concetti di sicurezza nella nostra cultura e in quella statunitense) si caratterizzano per una fortissima tendenza alla sussidiarietà tra le varie componenti coinvolte nella sicurezza.
Da un altro punto di vista vi è l’esigenza di razionalizzare le forze in campo coinvolgendo tutte le forze di polizia nella gestione della sicurezza. Occorre una definizione delle questioni pendenti in materia di sicurezza urbana definendo il campo di applicazione dell’art. 54 T.U.E.L.
La sicurezza urbana si colloca tra le maggiori preoccupazioni percepite dai cittadini, ma è anche uno degli aspetti più complessi per la sovrapposizione di posizioni amministrative diverse (persone elette / funzionari statali assunti per concorso). Vi è per di più una indecisione politica sul ruolo da attribuire al sindaco nell'ambito della sicurezza; proprio in questi giorni il ministro dell'Interno ha rivendicato per tale figura maggiori poteri. Al momento, egli fa parte del Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza sedendo al tavolo con Prefetto, Questore e Comandante Provinciale dell’Arma dei Carabinieri e nel contempo è titolare del potere di ordinanza ex art 54 TUEL. Quest’ultima prerogativa è comunque sottoposta al controllo da parte del Prefetto a cui spetta non solo il coordinamento delle forze di polizia ma anche la verifica del contenuto dell’ordinanza sindacale.
Relativamente ai “patti per la sicurezza”, stipulati negli ultimi anni da sindaci e regioni con lo Stato, senza analizzare gli stessi nel dettaglio si rileva come essi siano rimasti stabilizzati a livello di convenzioni, senza avere quel respiro costante che consentirebbe un loro dispiegamento a livello di risultati concreti.
E certo non possono ritenersi esaustivi i pur meritori impegni di spesa per la videosorveglianza, elemento essenziale ma non unico nel mosaico delle realtà che vanno a comporre il prodotto definito come sicurezza.
La realtà del Comune costituisce il fulcro della storia europea. Intorno all’istituzione comunale si è formata e sviluppata la cultura trasversale che caratterizza in modo unitario i popoli europei pur diversi per cultura. Intorno alla struttura organizzativa del comune ruotano molte delle possibilità di attuare politiche di sicurezza basate sul modello di “prossimità” o di “comunità” se si sceglie il modello più vicino a quello adottato dagli anglo-sassoni.
Sfogliando il sito internet di una qualunque delle forze di polizia in Europa si trovano i nomi dei poliziotti in servizio per ogni quartiere. Inoltre vi è un supporto raggiungibile telefonicamente in ampie fasce orarie che presta assistenza direttamente a casa per una vasta casistica che oltrepassa quelli che per noi sono limiti naturali delle competenze dell’operatore delle forze dell’ordine.
Appare oggi più che mai indispensabile superare il limite insito nella cultura del “tutore dell’ordine” che non interagisce con gli altri attori, ma per raggiungere questo scopo occorre una progettualità compartecipata oltre che un impegno a livello di formazione degli operatori del settore sicurezza, progetti ambiziosi per amministrazioni che non formano a sufficienza neppure sul proprio versante interno.
Il tutto si renderebbe auspicabile in nome di una sicurezza intesa come bene pubblico al pari della sanità e dell’insegnamento che va costruito attraverso la partecipazione di tutti i cittadini per divenire patrimonio comune e non fonte di discordia o, forse peggio, di diffidenza.
Inutile dire che i tanti, troppi tagli lineari che hanno riguardato la sicurezza sono andati in netta controtendenza con l'esigenza tesa a salvaguardare un simile bene.
Se vogliamo realmente conseguire mete “ambiziose” occorre adoperarsi seriamente e nel concreto per una politica nazionale della sicurezza capace di rispondere ai bisogni delle persone che abbia obiettivi serventi a quel modello di sicurezza pubblica che, la legge 121/81, individuava nella fattiva collaborazione tra tutori dell'ordine e cittadini.
Ridurre gli sprechi senza diminuire efficienza e operatività rappresentano pertanto l'unica strada perseguibile per assicurare un vera prossimità ai cittadini del nostro Paese.









Roma, 27 Maggio 2015



Editoriale del segretario generale Daniele Tissone













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